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Imprese: allarme Cina, ma non solo

Gli imprenditori CNA: Non temiamo la competizione ma i mercati senza regole

05-05-2005

La competitività delle imprese anche in Emilia Romagna, continua a perdere colpi ed ormai si può parlare di vera e propria emergenza. Allarme Cina, ma non solo. E' vero infatti, che la competizione risulta sempre più falsata dal forte apprezzamento dell'euro sul dollaro e dall'immissione sui mercati di prodotti a basso costo, ma assistiamo anche alla crescita di una concorrenza sommersa dovuta alla presenza di strutture produttive e di servizio operanti in un regime di semiclandestinità e illegalità parziale o totale sul territorio. E'quanto emerge dal sondaggio che la CNA dell'Emilia Romagna, raccogliendo numerose e ripetute segnalazioni da parte di propri imprenditori, ha effettuato (attraverso la Freni Ricerche di Marketing) su un campione di 136 imprese associate nel corso della prima settimana di aprile. I risultati sono stati presentati nel corso di una conferenza stampa, questa mattina, dal presidente regionale QuintoGalassi e dal segretario regionale, Giorgio Allari

Una competizione falsata
Concorrenza alla pari e regole certe sui mercati; questo chiedono gli imprenditori. Il caro euro, lo sfavorevole rapporto di cambio; un Governo che non ha saputo assumere provvedimenti adeguati, ed anzi, ha mantenuto elevati costo del lavoro e prelievo fiscale; le difficoltà della UE ad intervenire con immediatezza e, per ultimo, l'effetto Cina, determinano una situazione che rischia davvero di diventare incontrollabile. Questi i principali motivi all'origine della perdita di competitività dei prodotti italiani, nella percezione degli imprenditori intervistati. Sottoposte a concorrenza sleale risultano non solo le aziende del tessile abbigliamento pelletterie e calzature e del comparto edile, dove il fenomeno ha raggiunto dimensioni rilevanti, ma anche quelle dei servizi alla persona e dei trasporti; in questo ultimo settore la concorrenza proviene soprattutto dai paesi dell'Est europeo, Romania in testa e deriva dall'utilizzo, da parte dei vettori di quei paesi, di conducenti non in regola, dal mancato rispetto di contratti e delle ore di guida e dalla violazione delle norme di sicurezza. Non raggiunte in modo ancora significativo da questo fenomeno risultano, invece, le aziende del comparto del settore metalmeccanico e di quello dei servizi alle aziende.

Il peso di un cambio sfavorevole
Dal sondaggio emerge come più di un'azienda su quattro, in primo luogo le aziende manifatturiere, abbia subito in conseguenza dell'eccessiva valutazione dell'euro su dollaro e yen, una significativa penalizzazione. Sono le imprese impegnate sui mercati internazionali, quelle che, inevitabilmente, risentono negativamente del rapporto di cambio sfavorevole. Un rapporto di cambio più equilibrato, rappresenta l'auspicio di due aziende su tre nel comparto manifatturiero ma anche di una parte delle imprese dei servizi. I più penalizzati dal caro euro rispetto a dollaro e yen, si dichiarano gli imprenditori di Reggio Emilia (molto penalizzati il 7,7% e abbastanza il 30,8%); Modena (abbastanza penalizzati il 27,3%) e Bologna (molto penalizzati il 4,8% e abbastanza il 25%).

Non c'è gara, se c'è concorrenza sleale . Tra i più critici gli imprenditori stranieri
La denuncia di competitor poco leali, non riguarda soltanto la Cina l'area dei mercati asiatici in generale ed alcuni paesi dell'Europa dell'est.
Uno degli elementi per certi versi nuovo emerso dal sondaggio, è quello di una incidenza sempre maggiore della forte presenza di lavoro sommerso nell'area geografica di attività delle imprese.
Pur rimanendo l'Emilia Romagna (come stimano anche i dati ISTAT) al secondo posto insieme a Piemonte e Trentino Adige con il 9,8% nella graduatoria delle regioni con il minor tasso di irregolarità delle unità di lavoro (al primo c'è la Lombardia con l'8,9%) , il problema dell'esistenza di una economia sommersa, si pone anche qui.
La presenza di situazioni non legali in loco, è stata segnalata da oltre il 40% delle imprese. Il fenomeno della presenza di lavoratori clandestini sottopagati, ma anche del lavoro non regolare in genere, risulta più accentuato nell'area Emilia Ovest (Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Modena, Bologna) rispetto alle province della Romagna (Rimini, Forlì-Cesena, Ravenna) e Ferrara. La Romagna segnala in primo luogo il mancato rispetto delle norme di sicurezza (segnalato da oltre il 40% delle imprese romagnole contro il 27% di quelle emiliane), la violazione dei contratti di lavoro ed il mancato rispetto delle norme ambientali. La situazione più critica corrisponde al settore dell'edilizia, dove il lavoro non ufficiale, sembra piuttosto la regola che non l'eccezione; sono state segnalate situazioni di concorrenza sleale da parte di oltre 2 aziende del comparto delle costruzioni su 3; non solo lavoro in nero ma anche violazioni delle norme di sicurezza (segnalazione di quasi un'azienda su 2); un'azienda edile su 5 ha segnalato situazioni concorrenza sleale a causa della presenza di lavoratori clandestini sottopagati.
La concorrenza sleale affligge in modo considerevole anche il settore dei servizi (segnalazioni provenienti da più della metà delle aziende), oltre che per la diffusione del lavoro in nero (quasi 40%), anche per la presenza di lavoratori clandestini sottopagati e del mancato rispetto delle norme di sicurezza (segnalato da più di un'azienda su 4).
Un altro elemento interessante emerso dal sondaggio, riguarda gli imprenditori stranieri: coloro che hanno scelto di regolarizzare la propria posizione scegliendo un lavoro autonomo, sono tra i primi a segnalare le difficoltà determinate dall'invasione dei prodotti a basso costo (esempio i numerosi cinesi che operano nell'abbigliamento, specie del settore intimo, i quali non ricevono vantaggi dai rapporti con la madre patria ma soffrono come le altre imprese le quantità eccessive di merci a costi quasi stracciati) o dalla presenza di manodopera illegale a basso costo ad esempio gli albanesi del settore edile).
A livello delle singole province, sono ad esempio gli imprenditori parmensi, quelli che denunciano in maggioranza la presenza di concorrenza sleale nella propria area geografica (l'83,3% denuncia lavoro in nero ed il 33,3% la presenza di lavoratori clandestini) , seguono quelli di Bologna (lavoro nero per il 46,2% e lavoratori clandestini per il 36,4%). A Ferrara, il 75% degli imprenditori intervistati, denuncia il mancato rispetto delle norme di sicurezza ed il 37,5% segnala il mancato rispetto delle norme ambientali.

Bocciato l'operato del Governo; sul decreto per la salvaguardia della competitività prevale lo scetticismo
Nella percezione generale degli imprenditori intervistati, il Governo si è completamente disinteressato dei problemi delle aziende penalizzate dalla concorrenza sleale, abbandonandole, in pratica, al loro destino. Gli interventi, dicono gli imprenditori, sono stati tardivi e non all'altezza. Il giudizio delle imprese di servizio è ancora più negativo. Anche per quanto riguarda l'efficacia del provvedimento sulla competitività, gli imprenditori manifestano un notevole scetticismo, anche se sembra percepibile nel comparto manifatturiero , un atteggiamento un po' meno critico. Comunque, i provvedimenti decisi dal Governo, nella percezione complessiva degli imprenditori del panel CNA, comporteranno, nella migliore delle ipotesi, benefici marginali. I più critici nei confronti dell'operato dell'Esecutivo, si dimostrano gli imprenditori reggiani e ravennati. Per il 69,2% degli imprenditori reggiani, il Governo non ha saputo proteggere in alcun modo le aziende italiane dalla concorrenza sleale e per il 30,8% le ha protette ben poco. Per l'83,3% dei ravennati il Governo non ha fatto niente ,e per il 16,7% ha fatto poco. Più o meno sulla stessa lunghezza d'onda, comunque, tutti gli altri: complessivamente il Governo ha fatto poco o niente per l'88,9% dei riminesi, l'87,5% dei piacentini, l'83,3% dei parmensi, l'81,8 dei modenesi, 75,8% dei bolognesi.

Neppure l'Unione Europea ha lavorato bene, troppa lentezza nelle decisioni e scarsi gli interventi
Nonostante la diffusa approvazione per l'alt imposto ai prodotti tessili artificiali cinesi, il giudizio degli imprenditori intervistati sull'operato della UE non è molto diverso da quello espresso sul Governo italiano; nella percezione degli imprenditori anche la Commissione Europea ha preferito per molto tempo, mentre le imprese italiane subivano l'aggressione di una concorrenza non sottoposta a regole, far da spettatore piuttosto che da arbitro. Se la UE dispone dell'autorità e degli strumenti per intervenire a tutela delle imprese che rispettano le norme che la stessa Unione adotta ed impone, difetta pesantemente, invece, sul piano dei tempi, almeno per le urgenze delle imprese. Non ci sono sostanziali differenze nell'opinione delle imprese impegnate sui mercati internazionali rispetto a quelle che non lo sono; soltanto una diversa intensità di critica. Nell'opinione prevalente degli imprenditori intervistati sia l'Unione Europea che il Governo italiano dovrebbero assumersi la responsabilità della protezione della produzione nazionale dalla concorrenza sleale; 1 imprenditore su 3 preferirebbe la competenza esclusiva dell'Unione Europea. Fra le aziende manifatturiere, si avverte l'esigenza di una competenza sovranazionale che vada anche al di là dell'ambito europeo. Risultano ridotti al minimo, invece i sostenitori dell'esclusiva competenza nazionale.


Dazi antidumping, necessari per un'azienda su tre, ma il protezionismo non basta: servono regole certe e l'autorità per farle rispettare.
La richiesta di opporsi con l'imposizione di dazi ai prodotti provenienti da paesi che praticano la concorrenza sleale viene, in primo luogo, dalle aziende del comparto manifatturiero (4 su 5). L'atteggiamento delle aziende del comparto servizi è più contrastato ed evidenzia delle aree di resistenza ad una politica troppo protezionistica. La divaricazione fra le aziende nella richiesta dell'imposizione di dazi, cresce nel subcampione delle imprese attive sui mercati internazionali; 1 azienda su 3 ritiene comunque assolutamente giustificata l'imposizione di dazi sulle merci provenienti dai paesi che praticano la concorrenza sleale. Ma si chiedono anche regole certe e la capacità di far rispettare le decisioni da parte di organismi internazionali quali il WTO in materia di commercio. Inoltre, molti imprenditori evidenziano come la crescita di paesi quali la Cina e l'India, possa rappresentare un'enorme opportunità, il mercato del futuro, con milioni di consumatori. Gli imprenditori, fanno osservare diversi intervistati, operanti soprattutto nel comparto della meccanica, ma anche dell'alimentazione, del settore dei complementi per l'arredo e dello stesso settore tessile, hanno il coraggio di osare, ma non hanno un "sistema paese" che li sostenga, dal Governo alle banche. Il mercato cinese avanza? Non serve pensare a particolari protezioni sui mercati asiatici – dicono - semmai occorre creare sinergie e lavorare con loro, costruire una rete commerciale valida ed organizzare l'assistenza in loco.

Perdita di competitività: responsabilità istituzionali e fattori legati al prodotto
All'origine della perdita di competitività dei prodotti italiani, nella percezione degli imprenditori associati alla CNA stanno, a parte la concorrenza sleale dei paesi in via di sviluppo, essenzialmente 2 fattori critici: il livello eccessivo del prelievo fiscale e l'incidenza del costo del lavoro (più di 2 imprenditori su 3 li segnala). Come è possibile competere con mercati asiatici, nei quali il costo del lavoro è mediamente 34 volte più basso che noi?. Alcuni imprenditori del settore legno arredamento, hanno evidenziato come ad esempio, in Cina il costo di un dipendente sia di 50 centesimi l'ora, mentre in Italia, il costo di un falegname, risulti per l'azienda tra i 16 ed i 17 euro all'ora. Da parte delle aziende del comparto manifatturiero si sottolinea anche il ruolo del rapporto di cambio sfavorevole. Le aziende impegnate sui mercati internazionali, non soltanto accentuano il ruolo del prelievo fiscale e del costo del lavoro, ma convergono sulla tematica dell'insufficienza del sostegno all'export (oltre che dal cambio sfavorevole). Due temi su quali il Governo poteva e doveva intervenire più efficacemente.
Per quello che riguarda invece il ruolo dei fattori legati al prodotto nella maggiore perdita di competitività delle produzioni italiane rispetto agli altri grandi paesi europei, si registra una minore univocità di interpretazione. Predomina in assoluto il prezzo non concorrenziale (in conseguenza dei fattori di tipo istituzionale già richiamati: livello dell'imposizione fiscale e costo del lavoro) sul quale converge l'opinione di 2 imprenditori su 3 del comparto della produzione.
L'altro principale fattore è rappresentato dall'atteggiamento rinunciatario nei confronti dei consumi, dalla flessione della domanda di mercato. Fra le aziende di servizi assume un peso maggiore l'insufficienza delle politiche di branding. Gli imprenditori delle aziende impegnate sui mercati internazionali concentrano le loro indicazioni sul prezzo non concorrenziale dei prodotti italiani (più di 2 imprenditori su 3).

Anche le imprese devono in parte riorganizzarsi
Una parte di imprenditori segnala anche come il fenomeno della competizione a basso costo possa essere fronteggiato non solo con dazi ma, soprattutto, attraverso un processo di riqualificazione del sistema produttivo verso la produzione di beni e servizi meno influenzati dalla concorrenza di prezzo. Oggi è il tessile abbigliamento ad essere nell'occhio del ciclone, ma a breve anche settori quali l'alimentazione e la componentistica per auto, saranno chiamati a fare i conti con prezzi fuori mercato. In sostanza, dicono gli imprenditori, il divario tra la crescita delle esportazioni e quella della domanda potenziale proveniente dai mercati di sbocco, indica per il made in Italy, una perdita di competitività riconducibile sì a fattori transitori quali l'euro forte, ma anche a fattori di natura strutturale legati alla composizione merceologica della produzione italiana, spesso orientata nei segmenti di mercato poco dinamici e in quelli soggetti alla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Produciamo probabilmente pochi beni la cui domanda è in crescita (esempio nel settore delle telecomunicazioni o apparecchi ad elevata tecnologia) e ancora troppo in settori nei quali la domanda o non aumenta o addirittura è in calo).